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Non sono mai stato granché in matematica. Forse non ho avuto maestri capaci. Forse è un deficit cognitivo vista l’abilità di mio figlio Diego, 8 anni, impegnato in calcoli di ogni tipo malgrado un percorso scolastico caratterizzato dal continuo turn over di supplenti.
Emma, di anni 10, mi assomiglia: non brilla di luce propria davanti a tabelline e problemi, ma in compenso ha iniziato a leggere Shakespeare.
Quanto al lavoro, fino a qualche anno fa ero convinto che le mie limitate competenze matematiche non mi sarebbero mai state di grande aiuto. Gli studi classici e le esperienze nel campo della comunicazione sociale, con una predilezione per l’indagine sul terreno e il racconto 'dal basso', mi avevano portato a coltivare altre competenze e a diffidare delle generalizzazioni e della legge dei grandi numeri.
Numeri o persone? Limiti delle visioni di insieme
Ho iniziato a diffidare delle statistiche durante lunghi anni di apprendistato a Nairobi. Allora collaboravo con AMREF e, tra altre cose, avevo il compito di contribuire a far conoscere un progetto di recupero dell’infanzia abbandonata in una baraccopoli della capitale del Kenya. Il fenomeno, scrivevamo al tempo riprendendo fonti imprecisate, riguarda «oltre 100.000 bambini e ragazzi di strada. Giovani abbandonati, spesso orfani o in fuga da situazioni familiari difficili, esclusi da ogni forma di assistenza ed educazione, costretti a guadagnarsi la vita nelle strade». Erano dappertutto. Li vedevi mendicare nel centro della città, ciondolare lungo le strade a caccia di rifiuti da raccogliere e riciclare, intenti a sniffare colla nei crocicchi oppure nelle 'basi', a qualsiasi ora del giorno. Quanti fossero realmente nessuno poteva dirlo, in assenza di indagini documentate. Il numero a sei cifre ci aiutava però a sfidare l’indifferenza del pubblico italiano, a dire che le giovani vittime dell’AIDS, dell’urbanizzazione rutilante, della desertificazione, dell’assenza delle più elementari condizioni igieniche nella baraccopoli, erano una marea. Più che un dato era un totem da agitare contro l’indifferenza del mondo.
Il giornalista francese Stephen Smith, ingaggiato alla metà degli anni Novanta da Reuters per realizzare un rapporto annuale sulla Nigeria, racconta quanto fosse e sia tuttora difficile fornire dati attendibili in Africa. «Sistemato in un angolo dell’ufficio, ero lo sgobbone a caccia di dati difficili da reperire e ancor più da raffrontare… Occorreva rifare i calcoli sempre di nuovo su altre basi ugualmente arbitrale, senza contare i successivi maneggi politici che si aggiungevano agli errori iniziali (perché i militari avevano fatto sparire parte dei vecchi censimenti). Inevitabilmente, nonostante l’impegno, il nostro rapporto sulla Nigeria non era che una pallida ombra tremolante del mondo reale» (Fuga dall’Europa, p. 13-14).
Il dato sui ragazzi di strada nascondeva però un altro problema, ancora più insidioso per il lavoro che eravamo chiamati a fare. In questo caso le statistiche sociali e i numeri rischiavano di trasformare i bambini e i ragazzi più a rischio in cifre, cose astratte, inanimate, moltitudine sgradevole e perturbante. In una parola spazzatura, come vuole il nomignolo in sheng (lo slang delle baraccopoli) che gli hanno appiccicato addosso: chokorà.
Per combattere stigma e pregiudizi cercavamo allora di inventare nuovi modi di raccontare, per svelare le persone dietro le maschere, l’umanità sotto gli stracci, i volti dietro i numeri. Percorsi di formazione all’audiovisivo (culminati in documentari come Tv Slum e Sillabario Africano di Angelo Loy), laboratori teatrali (l’esito più conosciuto è Pinocchio Nero, di Marco Baliani), libri (Le avventure di una ragazzo di strada, Giunti 2005).
(Per la cronaca: recentemente il governo keniota ha promosso il primo censimento dei ragazzi di strada in Kenya. Ignoriamo al momento i risultati ma alcuni esperti dubitano di criteri e metodologie impiegate).
I numeri parlano: dati di realtà versus percezione
La vita però può riservare grandi sorprese. Qualche anno dopo, Save the Children mi propone di ideare un nuovo rapporto sulla situazione dell’infanzia in Italia. Una fotografia delle condizioni di vita dei circa 10.000.000 di bambini e ragazzi che popolano il nostro Paese, con l’obiettivo di comprendere quali strategie, politiche, interventi, reti, sarebbe auspicabile mettere in pratica, a livello nazionale e/o locale, per garantirne i diritti fondamentali. Nasce così l’Atlante dell’infanzia a rischio, un progetto che, ironia della sorte, da quasi 10 anni (2010) mi impegna in prima persona a cercare, studiare, elaborare, tradurre, rappresentare, migliaia di numeri sull’infanzia.
Lavorando in maniera strutturata e consapevole a questo progetto, con l’aiuto di colleghi ed esperti, ho avuto modo di vagliare centinaia di indagini che utilizzano gli strumenti di base della matematica per cercare di quantificare fenomeni anche molto diversi tra loro - dalla demografia alle povertà, dal mondo della scuola ai servizi - e di constatare quanto impegno, ricerca, passione, intelligenza, si celi dietro la vasta produzione statistica del nostro Paese. Naturalmente ci sono indagini e indagini, ricerche molto e poco rappresentative, censimenti, ricerche campionarie, sondaggi telefonici. E in ogni caso anche gli indicatori strutturati non vanno presi per oro colato, così come i dati non vanno scambiati per la 'realtà'. Quanto alle mappe, forniscono per definizione una rappresentazione piana, ridotta e approssimata del territorio. Non bisogna dimenticare che qualsiasi mappa è una libera aggregazione di insiemi più o meno arbitrari di dati: come ha scritto Lucy Fellowes, professoressa allo Smithsonian, «every map in somone’s way of getting you to look at the world his or her way».
Ma pur con tutti i suoi limiti, questo ricco e eterogeneo corpus di informazioni statistiche, se usato bene, ci può aiutare a comprendere le coordinate delle tante Italie dei bambini e delle bambine, e insieme a realizzare degli zoom territoriali per individuare priorità, risorse, problemi, strategie di intervento. I dati e le mappe ci aiutano a realizzare confronti e a individuare problemi. Ci permettono di capire ad esempio che, nel panorama europeo, l’Italia investe meno nel comparto istruzione e nelle politiche giovanili, che le regioni afflitte dai maggiori deficit in termini di servizi, sono le stesse che presentano i livelli più elevati di povertà minorili, dispersione scolastica e disoccupazione giovanile.
In un epoca segnata dalle fake news, dalla proliferazione incontrollata delle fonti e in definitiva dal muro della disinformazione, il dato ben documentato, frutto di una interrogazione meditata della realtà, ha inoltre il grande pregio di proteggerci dai pericoli della percezione. Prendiamo il terreno particolarmente inquinato dell’immigrazione, dove è massimo lo scarto tra realtà percepita e dati di realtà: gli italiani interpellati in un sondaggio realizzato nel 2017 dalla Commissione europea pensavano (uno dei periodi maggiormente segnati dall’emergenza sbarchi e dalla strumentalizzazione mediatica del fenomeno) che gli immigrati regolari extra UE fossero ben il 25%, una persona su quattro, contro una media reale del 7% (Eurobarometro 2017). Quasi 1 persona su 2 riteneva che gli immigrati irregolari fossero in numero maggiore di quelli regolarmente muniti di permesso di soggiorno, e 1 italiano su 4 credeva che i due gruppi si equivalessero. (A conclusioni analoghe è giunta un’altra indagine realizzata nel 2018 dal National bureau of economic di Harvard). Dati incredibilmente fuori dal mondo, se pensiamo che in Italia gli immigrati regolari sono 5.100.000, ovvero 10 volte il totale presunto degli immigrati irregolari, destinato tuttavia ad aumentare nei prossimi mesi in seguito al cosiddetto decreto Sicurezza, appositamente escogitato per alimentare la percezione di insicurezza e le pulsioni xenofobe degli italiani.
«Ci sono molteplici ragioni per questi errori - sostiene Perils of perceptions, le cose non sono così cattive come sembrano, un’indagine promossa in 38 paesi dall’Istituto di ricerca Ipsos-Mori -
dalla nostra battaglia con la matematica e le proporzioni, ai media, alla copertura politica delle questioni, alle spiegazioni psicologiche delle nostre scorciatoie mentali e dei nostri pregiudizi. In particolare gli studi ci dicono che questo accade anche perché tendiamo a sovrastimare ciò che temiamo».
Queste vere e proprie distorsioni (bias) sistematiche della realtà chiamano in causa il ruolo dei media e il loro effetto sui nostri processi cognitivi, come spiega il direttore di IPSOS Mori Bobby Duffy: «Le imprecisioni riguardano più spesso i fattori che sono ampiamente trattati dai media come le morti per terrorismo, i tassi di omicidio, l’immigrazione e le gravidanze precoci». Nella nostra personale ricostruzione dei fenomeni tendiamo a sopravvalutare l’importanza dei temi mediatici più caldi e quindi più presenti alla nostra memoria. Altre ricerche mostrano come queste distorsioni siano più presenti in alcuni gruppi di rispondenti: ad esempio, in chi è privo di formazione universitaria e chi lavora nei settori poco qualificati a forte presenza di immigrati.
Avvertenze per l’uso: elementi di data education
Ricorrere all’analisi quantitativa dei fenomeni può rivelarsi certamente una strategia importante e utile sotto molti aspetti. E tuttavia il ricorso ai dati, soprattutto in campo sociale, appare più complicato di quanto siamo disposti ad ammettere. In particolare, non possiamo limitarci a dare i numeri: l’analisi quantitativa deve essere integrata con altri strumenti e metodologie qualitative di lettura della realtà, ne radicate sul campo. E dobbiamo imparare a utilizzare i dati in maniera accorta e critica. Di seguito una prima possibile lista di avvertenze per l’uso, desunte dall’esperienza concreta dell’Atlante.
Ridondanza: l’imperativo è scremare
Siamo sepolti dai dati e dalle informazioni, spesso inutili o fuorvianti. Persi nelle reti della società della conoscenza, dobbiamo imparare a gestire la sovrabbondanza (a differenza del ricercatore che opera nello scenario africano) e a orientarci nella moltitudine di dati, a volte contraddittori tra loro, con i quali veniamo in contatto.
Riferendosi alla comunicazione ecologica, il filosofo Timothy Morton punta il dito contro la «discarica di informazioni» che caratterizzerebbe a suo dire ogni discorso sull’ambiente. «Non è la veridicità, almeno in questo contesto, che ci interessa, e che pure oggi è questione che affatica il dibattito pubblico, ma la quantità di informazioni. Il contenuto dei dati è incalzante e ha lo scopo di scuotere le coscienze: non vedi che cosa sta accadendo? Fai qualcosa, abbiamo ancora poco tempo a disposizione» (Granata 2019, p. 121). La ridondanza di informazioni, sostiene Morton, finisce per confondere, spaventare, e in definitiva scoraggia l’unica cosa che potrebbe davvero giovare, l’assunzione di responsabilità da parte del singolo.
In questo panorama è più che mai fondamentale sviluppare anche nei ragazzi un’attitudine critica e consapevole all’uso del dato, finalizzata a scremare le informazioni inutili: insegnare a discernere le fonti attendibili e degne di nota; metterli in grado di vagliare il grado di accuratezza dei numeri 'estratti' dalla realtà e il loro effettivo significato; spingerli a ricorrere ai dati solo se serve davvero. A questo proposito, come insegna Mario Lodi, il linguaggio delle tabelle, il foglio-scheda e altri strumenti di rilevazione della realtà possono essere utilizzati non tanto per fini statistici o classificatori, ma come «un approccio all’osservazione e all’esame dei dati raccolti» (M. Lodi, 1970, p. 96).
Valore: tradurre nella lingua di ogni giorno
Alla fine del 2018 l’Ufficio Europeo dell’OMS ha realizzato un importante rapporto - intitolato Report on the health of refugees and migrants in the WHO European Region: no public health without refugee and migrant health - per veicolare lo stato delle nostre conoscenze sulla salute delle popolazioni immigrate in Europa. Il documento non è il frutto di una nuova survey, l’ennesima indagine di campo in materia, ma di un lavoro sistematico di analisi, raccolta, organizzazione e valorizzazione dell’ampia letteratura in materia (oltre 90.000 documenti consultati, circa 13.000 informazioni raccolte). «In un momento segnato da una forte polarizzazione politica sui temi dell’immigrazione, noi tecnici e scienziati abbiamo la responsabilità etica imprescindibile di produrre verità, evidenza, colmando il più possibile eventuali gap di conoscenza e di formazione», ha dichiarato l’funzionario dell’Organizzazione mondiale della Sanità che ha coordinato il progetto. L’aspetto interessante di questo lavoro, tuttavia, è quello di aver prodotto nuove evidenze compiendo un’opera di sistematizzazione e traduzione della letteratura scientifica prodotta in questi anni, senza cedere alla tentazione di limitarsi alla semplice collezione di dati: i report costruiti in questo modo, infatti, finiscono per contribuire alla proliferazione di dati non pensati e in definitiva a una loro svalutazione.
L’importanza del lavoro di traduzione e divulgazione del dato è stata sottolineata a suo tempo da Don Milani in Lettera a un professoressa. «Decine di Annuari Statistici consultati, decine di scuole visitate, altre raggiunte per corrispondenza, viaggi al Ministero e all’ISTAT per i dati mancanti, giornate intere alla calcolatrice. Altri prima di noi avranno fatto lavori del genere. Ma son quei poveretti che poi non sanno tradurre i risultati in lingua di ogni giorno». (Lettera a una professoressa 1968, p. 35).
Diseguaglianze: in Italia la media conta poco
Il nostro Paese è talmente caratterizzato da differenze interne tra regioni, province, città, ma anche all’interno della stessa città, tra centro e periferie, e tra periferie e periferie - che spesso (quasi sempre) le medie statistiche finiscono per perdere qualsiasi valore.
Basta guardare la concentrazione di persone straniere in alcuni quartieri (scuole, ambulatori, strade), generalmente i quartieri più popolari, per comprendere quanto possa essere improduttivo in questi casi fare appello al dato medio (8,5% di persone straniere, nel caso in questione) o ai pur certi benefici macro-economici dell’immigrazione. In assenza di politiche inclusive capaci di combattere le diseguaglianze e insieme di governare i fenomeni, la coesistenza tra le fasce più vulnerabili della popolazione italiana e gli ultimi arrivati si rivela inevitabilmente ricca di insidie e di possibili conflitti quotidiani.
Discorsi analoghi si possono fare su tutte le altre dimensioni della vita dei bambini, ad esempio sulla valutazione delle competenze in matematica dei ragazzi e delle ragazze di 15 anni, monitorato dai test PISA (2012). L’indagine ci dice che in media un alunno su quattro (24,7%) non raggiunge le competenze minime in matematica, un dato leggermente superiore alla media OCSE (23%). Se però non ci accontentiamo della media nazionale, e decidiamo di spingere l’osservazione territoriale più a fondo, scopriamo che i valori oscillano addirittura dal 45,8% della Calabria e dal 37,3% della Sicilia, al 10,3% del Trentino e al 13,9% della Lombardia. In Calabria la percentuale dei ragazzi privi delle competenze minime è 4 volte più elevata di quella che si rileva in Trentino. Se guardiamo i punteggi medi, vediamo inoltre che in matematica l’Italia fa segnare nel complesso un punteggio mediocre (485), lontano dal primato della Korea (554) e non così distante dal fondo della classifica, occupato da Grecia e Turchia (453 e 448). Ma i punteggi medi su base regionale ci dicono che Trentino, Friuli Venezia Giulia e Veneto si confrontano alla pari con i paesi europei più virtuosi (Olanda e Finlandia), mentre Calabria e Sicilia si attestano 60 punti sotto la media internazionale e perdono la sfida con gli ultimi in classifica.
Lavorare con dati e mappe sulle divisioni della società italiana è una buona palestra per insegnare a riflettere sulle diseguaglianze.
Scala: dal generale al particolare
Per evitare le trappole della media e cogliere il particolare dei territori, e quindi le diseguaglianze di opportunità particolarmente interessanti a livello dei processi educativi, è fondamentale trovare il metro più appropriato per condurre l’analisi. Per una lettura complessiva della geografia sociale del Paese particolarmente significativa appare la scala provinciale, una via di mezzo tra la risoluzione troppo sgranata delle regioni e quella eccessivamente puntiforme, e quindi difficilmente gestibile, dei comuni.
Per un’analisi più puntuale (ma ancora tutta da approfondire) delle aree metropolitane viene in soccorso la nuova mappatura di 14 capoluoghi promossa dall’ISTAT su mandato della Commissione parlamentare sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. Pubblicata on line nel luglio del 2017 (https://www.istat.it/it/archivio/202052) offre a tutti la possibilità di osservare in maniera sistematica la complessa articolazione dei comuni capoluogo delle 14 aree metropolitane con l'ausilio di un ampio ventaglio di indicatori che attingono prevalentemente all'ultimo censimento. Il lavoro dell'ISTAT ha il merito di aver spinto l'analisi al livello sub comunale senza limitarsi alle tradizionali suddivisioni amministrative - troppo ampie per poter restituire una rappresentazione puntuale dei territori - ma disaggregando i dati per partizioni più fini, dotate di maggiore omogeneità morfologica, ambientale e demografica. Nel caso di Roma, ad es., non ci si è accontentati di riprendere la maglia troppo larga, per una città così immensa, della suddivisione in 15 municipi, ma si è fatto ricorso alle 155 Zone urbanistiche (Zu) istituite dal Comune nel luglio del 1977; per Milano alle 9 Zone di decentramento sono state preferite le 88 aree che identificano i Nuclei d'identità locale (Nil); nella maggior parte degli altri comuni è stata utilizzata la suddivisione per quartieri. Gli indicatori sono stati resi disponibili sia al livello dell'area sub comunale individuata, sia al livello delle unità territoriali minime, le sezioni di censimento, in modo da permettere la realizzazione di ulteriori zoom al massimo dettaglio possibile per individuare specificità dei territori ed eventuali aree prioritarie di intervento.
Campione: dal particolare al generale
Uno dei campioni più esigui («mai avuta una scolaresca così esigua») eppure più significativi della storia statistica italiana è la classe che Mario Lodi tiene a battesimo a Vho dal 1964. Il formidabile diario di quella esperienza didattica è pieno di attività di misurazione: il conteggio dei giorni belli e di quelli brutti («la storia del cielo è fatta di numeri», un esercizio tornato di grande attualità nell’epoca del Climate Change), la misurazione della crescita del grano, l’annotazione sistematica dell’arrivo della primavera. Tra tanti calcoli, si promuove un’indagine socio-storica per comprendere le condizioni di vita dei nonni al tempo della polenta. «Il campionario sul quale si svolge l’indagine sarà l’insieme delle famiglie dei ragazzi» (M. Lodi 1970, p. 268). Per settimane si raccolgono dati relativi alla composizione delle famiglie, al mestiere dei nonni, al grado di istruzione, al costo delle merci, eccetera. «Sintetizzato dapprima con gli istogrammi e quindi con formule, il materiale statistico viene letto e collegato logicamente per quanto possibile…. Pare a guardarlo così un arido sistema di dati. Eppure per i ragazzi, che hanno partecipato tutto all’elaborazione con diligenza e pignoleria, è il risultato di un impegno esplorativo avvincente e talora sconcertante». La raccolta dei dati va di pari passo a quella delle testimonianze, rivelando «la storia dell’Altra Italia» che «nessun libro racconta».
Negli stessi anni un altro grande educatore, Don Milani, sperimenta la sua classe in un’indagine di campo, tramite somministrazione di questionari a un campione di studenti. La prima ricerca, realizzata interpellando 1960 ragazzi di 14 scuole, rivela che la bocciatura colpisce «inesorabilmente» i ritardatari, spesso pluribocciati, «quelli che hanno il lavoro a portata di mano» (p. 50). La seconda, effettuata su un campione di trentacinque scuole elementari per 2252 bambini, mostra la provenienza in gran parte contadina dei ritardatari. La terza, e ultima, rivela che l’80% dei ragazzi persi alla scuola è figlio di contadini, confermando l’ipotesi di fondo di Lettera a una professoressa.
Le principali indagini realizzate oggi da ISTAT su campioni molto più estesi e statisticamente rappresentativi (in genere 25.000 famiglie in tutta la penisola) forniscono numerose informazioni sulle condizioni di vita dei bambini e degli adolescenti: i giochi in cui si dilettano, i luoghi di svago che frequentano, le attività culturali, ricreative, sportive a cui partecipano, i mezzi di trasporto che utilizzano per raggiungere la scuola (Indagine sulla vita quotidiana), le povertà economiche, il sovraffollamento abitativo, eccetera (Indagini sulle condizioni di vita e sulle forze lavoro). Queste indagini, però, permettono di dettagliare i risultati solo fino a un certo punto, regalando alcune immagini ampie e generali: a livello di grandi aree urbane (zone densamente popolate), piccole aree urbane (con una densità non inferiore ai 300 abitanti per kmq e una popolazione superiore ai 5000 abitanti) e aree rurali scarsamente abitate. Un'altra griglia territoriale permette di scomporre le informazioni a livello di grandi metropoli (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari), di comuni nelle cinture urbane (la 'periferia' delle aree di grande urbanizzazione), e degli altri comuni suddivisi per dimensione demografica (fino a 2.000 abitanti, da 2.001 a 10.000, da 10.001 a 50.000 e oltre i 50.000).
Pur con diversi limiti, queste ricerche ci aiutano a trarre alcune considerazioni generali sulle principali articolazioni dei fenomeni indagati.
Strati: multi-dimensionalità uguale interdisciplinarità
Lavorando sul format dell’Atlante ho imparato ad apprezzare la ricchezza e l’utilità delle visioni di insieme quando, ancorate ai dati dei territori, permettono di mettere in relazione le diverse dimensioni dei fenomeni indagati.
Realizzare l’Atlante obbliga ad analizzare contemporaneamente la natura singolare e geograficamente connotata del dato (che deve concorrere alla realizzazione della singola mappa) e i differenti set di dati che partecipano alla rappresentazione multidimensionale del fenomeno e quindi alla stratificazione tematica delle diverse mappe che compongono l’Atlante.
A scuola l’analisi statistica ben congegnata dei fenomeni può favorire la collaborazione tra saperi e la ricerca interdisciplinare.
Pregiudizi e competenze matematiche
I dati possono essere utilizzati per sostenere la costruzione di una società aperta e inclusiva, ma anche per evocare paure ancestrali e inneggiare alla costruzione di muri (e in alcuni casi la dottrina farneticante della Sostituzione).
I numeri elevati degli sbarchi dei migranti nel periodo di crisi delle Primavere arabe sono stati utilizzati per alimentare la fobia del contagio sanitario. Gli esperti dell’OMS li interpretano però in maniera diametralmente opposta: «per quanto noi riconosciamo che il movimento di popolazione possa funzionare da fenomeno ponte fra paesi con profili sanitari e un’incidenza di malattie differenti, la paura di diffusione di malattie infettive da parte dei nuovi arrivati non è confermata dalla realtà dei fatti. È anche una questione statistica: nel 2015, durante la fase più critica, ben un milione di persone sono passate dai paesi del Sud Europa a quelli del Nord Europa. Un dato enorme in sé, ma molto piccolo se lo paragoniamo alle decine di milioni di persone che transitano in un anno all’aeroporto di Fiumicino. Se vado a spalmare la possibilità di contagio sul numero di persone, il rischio è forse più alto in un aeroporto dove il numero di transiti è molto alto».
Per poter essere significativi i dati devono sempre essere analizzati con onestà intellettuale e ovviamente con competenza. Nel nostro Paese, tuttavia, anche le competenze matematiche sembrerebbero risentire dei pregiudizi, ad esempio dei condizionamenti di genere. I risultati mediamente peggiori ottenuti dalle ragazze in matematica, 20 punti in meno dei ragazzi nei testi PISA Ocse (secondo scarto più alto tra tutti i Paesi OCSE), sarebbero in parte determinati «dal modo in cui ragazze e ragazzi, crescendo, hanno assimilato le nozioni sociali di comportamenti e attività ‘maschili’ o ‘femminili’» (L’ABC dell’uguaglianza di genere nell’istruzione, a cura di F. Batini, 2016, p. 55). Condizionamenti culturali che continuano a minare la fiducia delle ragazze e la loro motivazione a intraprendere una carriera nelle materie scientifiche.
D’altra parte, come conferma una messe di dati raccolti in questi anni, nel nostro Paese le bambine e i bambini oltre a possedere giochi che riproducono gli stereotipi di genere più comuni, ricevono cure soprattutto da mamme e nonne, a scuola hanno a che fare principalmente con maestre, e nella vita con donne che dedicano molto del loro tempo al lavoro familiare e domestico.
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Le persone non sono numeri e in Italia le medie non contano.
Ma i dati aiutano a dare un nome ai problemi e a mettere in rilievo le diseguaglianze.
Un’analisi informata e multidisciplinare dei territori, attraverso la produzione di indicatori, dati, mappe ragionate, può aiutarci a capire le priorità, elaborare progetti, sperimentare metodologie e strategie di intervento per migliorare le condizioni di vita dei nostri figli, in particolare dei bambini e delle bambine che vivono nei contesti più fragili.
La ricerca, l’analisi, l’elaborazione e la rappresentazione dei dati della realtà, com’è noto, possono costituire uno stimolante campo di ricerca anche per bambini e ragazzi.
Negli ultimi dieci anni la produzione statistica sull’infanzia in Italia è cresciuta in quantità e qualità, e offre un bacino quasi sconfinato di dati, possibilità didattiche interdisciplinari, sperimentazioni, per rimettere in gioco le competenze matematiche sul terreno più familiare, quello della loro stessa vita quotidiana e dei loro diritti.
Roma, 11 aprile 2019