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leggi il contributo di Cinzia Mion

 

Abbiamo fatto una lunga intervista a Tullio De Mauro sullo stato della scuola oggi e sull’educazione in generale. È stata pubblicata in una versione più breve su Alfabeta2, che ci ha gentilmente concesso di pubblicare questa versione completa.

 

di Giuseppe D’Ottavi e Christian Raimo

 

Iniziamo con una meta-domanda: che cos’è un’intervista sulla scuola?

Parlare di scuola in generale significa parlare di come una società, un paese si occupa della scuola. Immaginare che si possa isolare la scuola e i suoi insegnanti, gli alunni, le sue strutture e i suoi programmi dal contesto che determina, è a mio avviso fuorviante. Si sente dire spesso: “è colpa degli studenti… è merito degli insegnanti” e così via, e ci si dimentica che in realtà questi studenti vengono dalle viscere della società, così come gli insegnanti sono i depositari di un mandato che applicano con (o senza) mezzi, privati e pubblici, lavorando in edifici che non hanno costruito loro e che condizionano fortemente il modo di far scuola. Concentrarsi su singole porzioni di questo insieme che già è complicato e soprattutto è strutturalmente interrelato con le diverse classi sociali e con l’impegno (o il non-impegno) dei gruppi dirigenti, non è possibile e mi sembra sbagliato in linea di principio. Detto questo, all’interno di una valutazione più complessa, e difficile da elaborare, naturalmente si può affrontare anche l’esame di segmenti specifici dell’universo della scuola.

Il campo di gioco è proprio questo: la scuola come luogo di incubazione e consolidamento di democrazia.

Eh, magari. Se democratico è il mandato, o se comunque la scuola riesce a sviluppare una sua iniziativa in questo senso. Proprio in questi giorni si è chiusa la quarta edizione del concorso A scuola di Costituzione promosso dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal CIDI (Centro d’Iniziativa democratica degli insegnanti), un concorso diretto alle scuole che propongono progetti e lavori dei ragazzi intorno alla Costituzione italiana. Quest’anno abbiamo esaminato molti progetti interessanti che ripercorrono la nascita della Costituzione e quindi la storia di quegli anni e di che cosa fosse la scuola in quegli anni. Naturalmente la scuola degli anni Quaranta – penso alle medie superiori – era una scuola che non è stata priva di responsabilità nella formazione di una coscienza antifascista presso piccoli, anche piccolissimi gruppi, attraverso un certo numero di insegnanti illuminati; nel complesso però era una scuola irreggimentata, che incubava non la democrazia, ma la fedeltà al regime e alla patria fascista. La scuola può essere tutto: dipende da come viene orientata o costretta a orientarsi.

Qui arriviamo a toccare il tema del Suo scambio recente con Paola Mastrocola sulle pagine del Corriere della Sera. L’orizzonte sembra lo stesso: si tratta di concepire la scuola come depositaria di un sapere, la sedicente “Cultura”, che però non si sa bene cosa sia, dove cominci e dove finisca – una mistica della Cultura che tende a prospettare una “scuola per la scuola”, a fronte di un’idea di scuola il cui compito primario invece sia quello dell’inclusione sociale.

Sì, Paola Mastrocola esprime con molta ingenuità e molta chiarezza quest’idea della scuola come trasmissione: dice che dei suoi venticinque alunni, ventiquattro sarebbe meglio che andassero a spasso, e uno è bravo. Demonte (il cognome ce lo dice lei stessa) è bravo perché, quando risponde – riferisce Mastrocola – ripete esattamente le parole che ha usato lei. Ecco, questo è un ideale di insegnante e di insegnamento non raro purtroppo, ma che oggi quasi nessuno confesserebbe così candidamente e con questa limpidezza. Pietro Citati ha lodato il libro di Mastrocola perché – sostiene – riporta in auge la scuola come deve essere la scuola. Ancora, un filologo di tutto rispetto, Cesare Segre, accademico dei Lincei, ha esaltato anch’egli Mastrocola, che secondo lui farebbe stato – finalmente! – delle malefatte di due figuri che hanno danneggiato gravemente la scuola italiana: Gianni Rodari, che ha trasformato le prime elementari – a dire di Segre – in classi di bambini stupidotti che non fanno altro che giocare, e don Lorenzo Milani, che ha devastato l’apparato formativo italiano. Quindi Paola Mastrocola è tutto tranne che sola, anche se si presenta come un guerriero solitario, “Orazio sol contro Toscana tutta”… e la Toscana invece è largamente con lei: ricordo come, abbastanza inopinatamente, proprio il sindaco di Firenze Matteo Renzi, in una delle sue esternazioni leggiadre, abbia proclamato il suo apprezzamento per il libro di Mastrocola tanto da volerlo distribuire nelle scuole fiorentine… che lo rispediranno al mittente – temo – conoscendo la scuola fiorentina, una scuola di tipo diverso da quella che ha in mente Mastrocola.

C’è insomma un senso comune espresso dalla signora di Torino, riecheggiato da Citati e da Segre, che chiede una suola che sia trasmissione di un Sapere – dalla lettura di Mastrocola sembra di capire che questo Sapere coincida essenzialmente con la Gerusalemme liberata, che lei legge in classe con scarso interesse dei suoi alunni – con i quali io solidarizzo di tutto cuore. Tutto ciò però riflette un dato importante perché testimonia il mancato ripensamento in Italia – ma anche altrove scarso ripensamento – di contenuti e metodi dell’insegnamento medio superiore che si sarebbe reso necessario  dopo quello che è successo – nel mondo ricco per lo meno – dopo gli anni Cinquanta e Sessanta. Che cosa è successo?

Alla fine degli anni Sessanta Aldo Visalberghi colse un nodo centrale della questione avvertendoci, o cercando di avvertirci, del fatto che con la scuola media unificata – in Italia e in tutto il mondo – si sarebbe aperta una grande corsa all’istruzione e si sarebbe sviluppata la tendenza a inglobare il 100% delle ragazze e dei ragazzi che escono dalla scuole di base (in realtà noi ci abbiamo messo trent’anni, anzi: ancora non ci siamo riusciti). Ebbene questi ragazzi vorranno in gran parte andare alle secondarie superiori: ecco il problema non tanto dell’abbandono, quanto del ripensamento generale della struttura scolastica, un ripensamento che c’è stato in Italia per la scuola elementare e media. Con “ripensamento” intendo un lavoro di elaborazione di contributi molto forti, ideativi, come nel caso italiano quello svolto dai vari gruppi di intervento educativo, poi da Gianni Rodari, Mario Lodi (a cui solo più tardi si è aggiunto Don Milani, che da Mario Lodi ha imparato molto), o a livello internazionale i vari Dewey, i Frenait, il contributo ad esempio della pedagogia popolare sovietica è stato enorme: ha portato all’alfabetizzazione un numero straordinario di individui dopo la Rivoluzione di ottobre.

Tutto questo lavoro si è tradotto poi, per quanto riguarda le elementari e le medie, in programmi, nel 1979 e nel 1985. Questi programmi in parte sono rimasti inerti: nella pratica solo una piccola porzione di insegnanti si richiama realmente – lo sappiamo bene – a quei programmi. Diverso è il caso delle scuole elementari, in cui i programmi del 1985 sono stati profondamente introiettati, anche grazie a un Ministro che conosceva bene il mondo della scuola e che a sinistra è stato a torto poco amato: Franca Falcucci. Falcucci fece un’operazione di tipo francese, per così dire, e cioè obbligò tutti gli insegnanti e le insegnanti elementari tra il 1987 e il 1988 a seguire corsi di aggiornamento in cui si prendeva visione dei programmi e del che cosa significassero e richiedessero in termini di strategie di apprendimento. Questo grande sforzo ha pagato, e la scuola elementare italiana è diventata una delle scuole migliori del mondo e lo è restata, fino all’anno scorso; speriamo solo che gli scossoni del Ministro Gelmini non compromettano quello che si è fatto. Questo ripensamento insomma c’è stato per la scuola elementare e per le medie inferiori – non c’è stato assolutamente per i licei. Se ne parla dal 1969, quando fu promosso da Visalberghi e da altri pedagogisti un primo convegno su questo tema: come riorganizzare l’apprendimento dei contenuti? Perché non è in questione la Gerusalemme liberata, che può anche essere uno dei testi che si propongono alle ragazze e ai ragazzi delle medie superiori italiane, piuttosto: a contenuti fermi – magari integrati, arricchiti a seconda dei casi – quali possono essere le modalità di apprendimento per i ragazzi che vengono, come nel caso italiano, da strati sociali in cui non è mai entrato un libro, un giornale, in cui si parla poco e niente, si ascolta la televisione (che ormai significa televisione commerciale o commercializzata degli anni ’90 e 2000), che hanno famiglie senza punti di vista sulla cultura intellettuale, scientifica, critica, moderna? Questi ragazzi sono tagliati fuori anche se hanno fatto la loro brava scuola di base, più della metà di loro non è andata oltre; anche quelli che si sono spinti oltre, una volta usciti da scuola – e magari da una buona scuola – si sono trovati nel deserto culturale caratteristico del nostro paese.

Anche in paesi più felici del nostro, il problema, seppure non così drammatico, è analogo: la corsa all’istruzione che ha generalizzato la scuola di base ha coinvolto il 95% delle generazioni giovani di tutti gli strati sociali e questo avrebbe richiesto quel tipo di radicale ripensamento che c’è stato per la scuola di base. Una rielaborazione profonda sarebbe stata necessaria dappertutto – se ne stanno accorgendo ora – e non c’è stata. In Finlandia, In Gran Bretagna, nei Länder tedeschi hanno fatto aggiustamenti importanti, delle verifiche in corso d’opera (che noi non abbiamo fatto), insomma: altrove, se non ridono, perlomeno sorridono, o possono sorridere. Ora si comincia a sentir dire, e questa radicalità di riflessione su come reimpostare le cose non c’è stata e la scuola media-superiore scricchiola da vari anni. Io ho fatto quel poco che potevo, ma ben poco rispetto a altri che hanno denunciato la frana catastrofica dell’insegnamento medio superiore italiano.

Giancarlo Gasperoni pubblicò nel 1995 Diplomati e istruiti: Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore (Il Mulino), una indagine per l’Istituto Cattaneo per la quale sottopose a test di storia, cultura politica e sociale, matematica un campione stratificato di ragazze e ragazzi dell’ultimo anno delle scuole superiori di diversi indirizzi (tra l’altro una delle piaghe italiane: 205 tipi diversi di diplomi, secondo le stime) un mese prima dell’esame di maturità, confrontandoli poi con i voti finali. Tranne piccole percentuali, tutti i ragazzi erano stati promossi – come ci saremmo aspettati – e promossi con alte votazioni. Sennonché la correlazione tra voti e stupidaggini nelle risposte ai test di Gasperoni è clamorosa: nel 1995 metà delle ragazze e dei ragazzi non riusciva a dire com’è composto il Parlamento italiano. Le risposte tra cui scegliere erano abbastanza semplici se non bizzarre (“è fatto dai Consigli comunali, dalla Corte Costituzionale, da una Camera e un Senato…”) ma appunto solo la metà azzeccava quella giusta. Anche uno dei test di matematica era divertente: un quadrato diviso in 20 quadratini, di questi 20 quadratini tre erano puntati, avevano un puntino. La domanda era: qual è la percentuale di quadratini col puntino sui 20? Tra le risposte possibili: “La percentuale è il 109%, l’1,3%…”, ma solo una minoranza eletta rispondeva correttamente il 15%…

Ecco cosa significa insistere perché sia dia finalmente l’avvio a un ripensamento radicale.

Qualche mese fa anche su «Le Monde Diplomatique» si parlava di scuola. Secondo una logica che mette in parallelo istruzione e bisogni economici, qualche economista sosteneva che la scuola dell’istruzione di massa degli anni Cinquanta-Ottanta fosse stata il risultato della fiducia riposta  in un capitalismo progressivo che all’epoca viaggiava a pieno regime, fiducia che assecondava un’idea di futuro nel quale ci sarebbe stato bisogno di figure professionali sempre più qualificate. Non è andata così, oggi siamo nell’epoca della crisi e da vent’anni ormai si è imposta una tendenza diversa, che ha portato a una polarizzazione delle qualifiche: professionalità molto alte a fianco di competenze molto basse. Se le cose stanno così e se è la polarizzazione della domanda delle competenze a reggere oggi il mondo del lavoro, quale può essere la base formativa che possa intercettare sia l’ingegnere super-qualificato che il cameriere?

L’idea che il cameriere, o che il portiere d’albergo per dire (una figura prototipica degli esempi di individuo dalla competenza linguistica minima che ho sentito fare a certi professori di lingue), siano personaggi banali che fanno cose banali è già sbagliata. Suggerirei a questi economisti di provare a fare loro per dodici ore il portiere o il cameriere. L’esempio di «Le Monde Diplomatique» era quello del cameriere del TGV: un impiegato nel quale si concentrano una competenza di diverse lingue, ma ridotta ai termini di un ambito molto specifico, una predisposizione al calcolo matematico mentale, una pratica minima e funzionale di tecnologie diverse (microonde, bancomat ecc)…

Però purtroppo l’idea che la conoscenza sia così “tagliabile a fette”, e che ci siano quindi delle fette basse mangiabili ignorando quelle alte per nutrirsi è un’idea buona – forse – per costruire automi, ma non buona nella pratica della formazione. Io la penso come Aldo Visalberghi, come Martha Nussbaum e tanti altri, cioè come coloro che pongono il problema della formazione democratica, della necessità di fornire a tutti le capacità di orientarsi nelle scelte di una società complessa che richiede a ognuno un livello di competenza impensabile cinquant’anni fa, quando tanti fattori (la modestia degli sviluppi tecnologici, la lentezza degli sviluppi innovativi…) rendevano tutto meno complicato. Oggi per capire come votare per un piano sulle risorse energetiche di un paese – posto che abbia ancora senso parlare di piano di risorse energetiche per un solo paese, perché ormai questo è in questione – l’informazione minima necessaria è un’informazione che è fuori della portata di buona parte delle competenze della popolazione italiana, anche dei segmenti più istruiti. Da noi si può pigiare sul tasto della deprivazione, della maggiore descolarizzazione della popolazione adulta, cioè ci sono fattori negativi aggiuntivi; ma anche nelle situazioni ottimali i livelli di competenza oggi necessari per capirci qualcosa su come scegliere una soluzione o l’altra, su cosa vogliamo mettere dentro il frigorifero, richiedono una struttura scolastica robusta e aggiornata, oltre che un faticoso lavoro di acquisizione. Queste cose alcuni di noi le dicono da anni – io le ripetevo già ai convegni di Selezione del Reader’s Digest nei primi anni Ottanta. L’idea di una competenza alta che soltanto pochi possono possedere – accademici dei Lincei, fisici nucleari, linguisti di rango internazione e altri pochi eletti – è un’idea che viene messa in discussione da anni. Oggi se voglio capire che cosa trovo nei banchi del supermercato e cosa mi porto nel frigorifero di casa, l’abc insomma, ho bisogno di livelli di cultura che mio padre – laureato – poteva non avere. Figuriamoci mio nonno. Quando diciamo «ripensamento della scuola media superiore» chiediamo una scuola molto più severa e che sia in grado di servire competenze più diversificate e più complesse di quanto non fosse richiesto anni fa – questo è un punto centrale.

In società che vorrebbero essere democratiche, e in cui siamo chiamati a votare e quindi a pagare le conseguenze di voti dati con disinvoltura, la formazione alta generalizzata è una necessità.

 

Cosa ne è della politica scolastica come grande tema della sinistra di oggi?

Storicamente la sinistra italiana ha avuto grandi meriti nello spingere la riflessione collettiva della fascia politica dirigente nazionale – e delle classi dirigenti locali – verso i temi della formazione e dell’istruzione, dagli asili nido alle Università. Dopo l’exploit della legge di riordinamento dell’architettura complessiva delle forme dell’istruzione voluta da Luigi Berlinguer, la sinistra italiana è andata progressivamente dimenticandosi di questi temi, fino direi all’abbandono completo. Romano Prodi, tra gli anni Ottanta e Novanta, è stato uno dei pochi attenti ai problemi di scuola e di istruzione, tornato la seconda volta al Governo se ne è dimenticato anche lui. Oggi c’è disattenzione e silenzio. Le risposte agli attacchi alla scuola pubblica – attacchi operosi e efficaci – portati da Letizia Moratti prima, oggi da Giulio Tremonti e dal Ministro Gelmini, sono risposte che rincorrono, che protestano, ma niente che somigli a una elaborazione alternativa. Alcuni di noi hanno provato a porre questo problema, a riunirsi in ingenue lobby, ma queste iniziative sono cadute nel vuoto, la disattenzione è continua. Localmente, nelle amministrazioni locali, le cose sono un po’ diverse, sono sempre state un po’ diverse. Un dirigente di sinistra immesso in una amministrazione locale scopre nelle cose la priorità necessaria dell’intervento di politiche educative e cerca di adattarsi e di operare – però è l’elaborazione centrale che manca.

Chi ha posato lo sguardo sui problemi della scuola in genere ha avuto sempre parole di “crisi”. Oggi sembra che la retorica sia mutata, e si gridi all’emergenza…

 

Stiamo parlando dell’Italia però. Ci sono invece dimensioni internazionali nelle quali l’attenzione allo stato della scuola appare salda e molto diversificata. Sarò riduttivo ma, in termini di punti di bilancio pubblico destinati all’istruzione, la situazione internazionale è incomparabilmente superiore: Germania, Francia, Stati Uniti, ma ormai anche Venezuela, Brasile, Giappone, Cina, India, i paesi dell’Est Europa – per non citare la solita Finlandia – si muovono su altri piani rispetto alla catastrofica disattenzione italiana. Si fanno le campagne elettorali sui modi d’intervento dell’organizzazione della scuola. In Gran Bretagna si le elezioni si sono giocate per un terzo proprio su questo, da entrambe le parti. E i governi conservatori – da Sarkozy a Merkel – hanno un impegno in materia di promozione della scuola che Diliberto, per dire, non immagina neppure…

Allora, da dove si può riprendere il discorso? Chi vuole fare della scuola il proprio campo d’impegno civile e politico, da dove può ricominciare?

È difficile dirlo. Intanto un buon inizio potrebbe essere quello di far circolare informazione, ma lasciando perdere la televisione e pensando ai giornali tradizionali, per quello che valgono… Sono i dati stessi che mancano, questo è un settore difficile da seguire. Gruppi di pressione: si può provare a costruirli, abbiamo provato a farlo all’inizio del Berlusconi II. Abbiamo provato a tirare su artigianalmente un gruppo che si era intitolato come il film Non uno di meno e che in pochi giorni ha raccolto diecimila adesioni. C’erano i bei nomi – Margherita Hack, Umberto Eco… – e i nomi degli insegnanti, dei dirigenti scolastici, che aderivano con nome, cognome indirizzo e sede, a loro rischio e pericolo (rischio e pericolo non immaginario, perché sono stati tampinati dal Ministero in quel periodo). Con questa task force di alcune migliaia di persone abbiamo fatto il giro delle sette chiese, parlo del 2003-2004, cercando di destare l’attenzione dei segretari dei partiti politici di opposizione. Con un totale disastro dal punto di vista delle risposte.Non bisogna stancarsi. In Parlamento c’è qualcuno – come Walter Tocci, che si occupa di università e strutture economiche. Con lui abbiamo una mezza idea di scrivere una cosa a due mani, forse la faremo, ma i buoni libri ci sono già, scritti da bravi economisti, quelli del gruppo la voce, Tito Boeri, Daniele Checchi. Questi sanno molto meglio di me come stanno le cose e provano anche a dirlo, ma sono parole al vento. È difficile capire come dare uno scossone, non ci riescono i precari, che sono la carne da cannone di questa mancata guerra, che l’opposizione non fa e potrebbe o dovrebbe fare.

Lei ha sempre legato il suo impegno nel campo dell’educazione democratica alla ricerca linguistica. Un nesso – quello della riflessione linguistica prestata alla cultura dell’educazione – che potremmo dire radicalmente, ontogeneticamente italiano (Vico, Leopardi, Gramsci…) e filogeneticamente demauriano (Bréal, Saussure, Meillet, Bartoli, Gramsci…). L’educazione linguistica come strumento di formazione civile, politica e democratica: un’idea minoritaria ma che è passata. Pensa che questa prospettiva sia ancora vitale?

È un’idea che lentamente ha fatto passi nel mondo. Sotto l’etichetta di language education il Consiglio d’Europa ha sviluppato molte proposte operative in questa direzione, come il quadro comune per l’insegnamento delle lingue o un bel documento di cinque anni fa sulle lingue dell’educazione: qui idee che erano state elaborate da una nicchia italiana sono raccolte, perfino con richiami onorifici espliciti – ma non è questo l’importante. L’importante è che l’idea che l’educazione linguistica sia un pilastro per l’educazione tutta – e anche per l’interazione multiculturale – ha fatto molta strada. Insieme a questa, ha cominciato a camminare la convinzione che una parte dello studio linguistico possa non inutilmente essere fatto guardando ai processi educativi nella scuola e al ruolo che il linguaggio ha nel gioco di questi processi educativi, e poi contribuendo a elaborare proposte politiche. E questo è l’altro versante, quello  che gli anglosassoni chiamano della educational linguistics. In realtà i prodromi sono antichi: perfino i grammatici indiani antichi avevano problemi a muoversi tra la lingua privilegiata come lingua modello e la lingua parlata e di applicazione educativa dei modelli che la loro linguistica suggeriva.

Cosa succederà in Italia è difficile dirlo, perché l’assedio è in atto e l’attacco è un attacco duro. Tremonti ha in mente un progetto di smantellamento di tutte le strutture formali e istituzionali di formazione della vita culturale, quasi dell’attività intellettuale in toto. Tremonti ha un’idea da fiscalista della cultura intellettuale.

Il punto è che il risultato della crisi della scuola secondaria superiore è l’abbandono precoce, alle soglie del diploma. Questa è una condanna a morte che grava sulla giovane generazione e coinvolge tutti i paesi, non solo l’Italia. Italiane sono le dimensioni: da noi 200.000 studenti, un terzo degli iscritti al primo anno, arrivati alle soglie del diploma molla. Ma attenzione, questa è una tendenza che si registra anche in sistemi scolastici che noi guardiamo con ammirazione, come quello finlandese. Di questi 200.000 due terzi vanno a ingrossare l’esercito dei «bamboccioni», ragazze e ragazzi che non studiano più, non si formano e non lavorano, e questo è un danno terribile per tutto il sistema sociale. Si tratta di un fenomeno trasversale, non è legato al familismo italiano. Anzi per fortuna c’è il familismo italiano, per assurdo, sennò sarebbe la fame… In altri paesi c’è la zattera del sussidio pubblico per le categorie più a rischio che cerca di fare attraversare il mare aperto, fino al lavoro. Tutto questo non chiama in causa solo banalmente la scuola, ma soprattutto la mancata riorganizzazione profonda di tutti i corpi sociali.

Questa, che è una faccia della crisi tra le meno viste, meno visibili, non è in parte compensata da un’educazione di tipo informale che avviene al di fuori della scuola?

Certo, ma se va per i fatti suoi non dà frutti se non c’è una formazione critico-scientifica che consente l’assimilazione. Certo che internet è una salvezza in mancanza d’altro. I ventiquattro alunni di Mastrocola che legge la Gerusalemme Liberata vanno su internet e lì trovano stimoli notizie, sollecitazioni.

L’articolo col quale Cesare Segre ha preso posizione a favore di Paola Mastrocola nella recente polemica è irritante proprio per il modo con cui sono attaccati Rodari e don Milani. Perché la centralità di queste figure non è penetrata? Vengono in mente le parole di Pasolini su don Milani negli Scritti Corsari…

Sì è stato un attacco vergognoso. Perché Pasolini educatore è stato assimilato? Nemmeno lui. Ma non è che don Milani o Rodari non siano penetrati: non sono arrivati fino a Cesare Segre.

 

 

Parole attualissime e pregnanti di Tullio De Mauro sulla scuola

contributo gentilmente concesso da Franco Lorenzoni